“Corruzione al Palazzo di Giustizia”

Il titolo si riferisce a un dramma di Ugo Betti, un caso di corruzione della giustizia che analizza i rapporti fra magistratura e politica, un tema quanto mai attuale e scottante. “Il palazzo - così esordisce il giudice Bata all’inizio del lavoro teatrale, rappresentato per la prima volta nel 1949 - è la miniera, è il pozzo, è il nido del malcontento, dei sussurri. Comincia uno a spargere calunnie, l’altro seguita, il giorno dopo sono dieci, venti e poi… È come una cancrena che si allarga”.

Gli esempi e i tipi di corruzione nell’esercizio della giustizia da parte dei magistrati si perdono nella notte dei tempi. Non c’è epoca o Paese in cui la giustizia possa dirsi immune da colpe e se volessimo prenderci la briga di passare in rassegna, secolo per secolo, la corruzione dei giudici (nel senso di degenerazione nell’uso della giustizia, di abuso, di azione disonesta, di venir meno alla propria funzione per interessi materiali o ideologici), dovremmo dire che la corruzione più sfacciata ci fu addirittura nell’epoca di Catone il Censore, quando nel processo contro Clodio - accusato di adulterio, commesso in un penetrale con la moglie di Cesare in violazione dei riti religiosi di un sacrificio durante il quale tutti gli uomini erano esclusi al punto che si coprivano con un velo le pitture raffiguranti animali maschi - i giudici accettarono del denaro per assolvere l’imputato e, cosa ancora più turpe, abusarono, sempre a quel fine, di matrone e di nobili giovinetti. Così l’accusato di adulterio distribuì adultèrii e solo dopo aver reso i giudici simili a lui poté essere sicuro di scamparla.

Il fatto superò ogni credibilità. Scrisse Cicerone: “Clodio chiamò in privato i giudici, gli fece delle promesse, delle regalie, li supplicò. E poi, che infamia, buon dio!, alcuni di essi ottennero in sovrappiù anche i favori di certe donne e le grazie di giovani nobili”. Sembra di vedere la scena: “Vuoi la moglie di quell’uomo così severo? Ci penso io a fartela avere. O quella di quest’uomo tanto ricco? Ti farò andare a letto con lei. Se non ci sarà intesa fra voi, condannami pure. Desideri quella bella donna? Verrà. Ti prometto una notte con lei. Subito: dammi tempo tre giorni e la mia promessa sarà esaudita”. I giudici di Clodio avevano chiesto e ottenuto dal Senato una scorta, necessaria solo in caso di condanna, per cui dopo l’assoluzione Catulo disse loro ironicamente: “Perché ci avete chiesto una scorta? Per paura che vi portassero via il denaro?”. E così, scherzando scherzando, adultero prima e ruffiano durante il processo, Clodio la fece franca e sfuggì alla condanna con atti ancora più vergognosi di quelli per cui era stato processato. “Condannato per un solo adulterio - scrisse Seneca - fu assolto per averne causati molti!”.

Ebbene, senza arrivare a questi estremi, un magistrato è corrotto anche quando fa un uso politico della giustizia, quando accusa o pronuncia sentenze dietro la spinta di un sentimento di odio, di vendetta, come i giudici che condannarono Socrate, il quale dopo la sentenza esclamò: “Non rimprovero i giudici per avermi condannato, li rimprovero per avermi condannato con cattiveria”. È corrotto, nel senso di deviato, avvelenato, anche un magistrato che amministra la giustizia con accanimento, infierendo ostentatamente e insistentemente contro l’imputato, che si lascia andare ad espressioni del tipo “Io quello lì lo sfascio!”, “È giunto il momento d’intervenire anche in forme sino a questo momento impensabili”, “Useremo tutte le nostre cartucce!”, come se invece che nell'aula di un tribunale si trovasse in un saloon del Far West. Ma forse chi l’ha sparata più grossa è quel magistrato che istigando i colleghi esclamò: “Rivoltiamo l’Italia come un calzino!”. Una frase quanto mai significativa ed eloquente che si richiamava ad un progetto antico secondo il quale la giustizia avrebbe dovuto fare piazza pulita di tutto ciò che potesse ostacolare la sua ascesa al potere assoluto, sostituendosi addirittura alla politica.

“A me pare che già siano state pensate tutte - scriveva Mario Cervi nel 2003 - gli scioperi, i girotondi con cartelli insultanti il presidente del Consiglio, gli appelli all’Europa, le strattonate a Ciampi, le dichiarazioni bellicose in televisione, i resistere, resistere, resistere, i convegni, le tavole rotonde, i dibattiti, le feste dell’Unità, le scampagnate molisane, i pronunciamenti palermitani, gli appelli milanesi. In questa atmosfera intrisa d’odio cosa può esserci di più? L’invio dei carabinieri perché tappino la bocca a chi osa criticare le toghe?”. Non bastano queste prove (ma quante altre se ne possono aggiungere) a mettere i magistrati e i giudici di fronte alle loro responsabilità? Come si fa a dire che sono obiettivi, sereni, imparziali? È evidente che vogliono “dare una lezione”, e una simile disposizione d’animo in un magistrato è assurda. Se errare humanum est l’errore dovrebbe quanto meno essere raro fra i giudici, e quando essi perseverano nell’errore ciò è ancora più diabolico che in qualsiasi altra persona.

Corrotto è anche chi utilizza i testimoni pro domo sua, magari ricattandoli, in modo subdolo o palese, chi si serve di delinquenti pentiti e di intercettazioni, visto che il magistrato, per mantenersi veramente imparziale e al di sopra di ogni sospetto, deve essere completamente libero e immune da qualsiasi intrusione che possa condizionarlo, non deve dar retta e tanto meno piegarsi alla voce popolare, alle opinioni di questo o di quello, a ciò che dicono i giornali, né deve partecipare a dibattiti politici o a manifestazioni di piazza parlando come un uomo di parte, altrimenti corrompe l’alta e nobile funzione a cui è stato chiamato.

Un altro esempio di corruzione della giustizia nel mondo classico ce lo offre Aristofane ne “Le Vespe”, una sottile requisitoria contro il sistema giudiziario che a quell’epoca in Atene era affidato ai giudici popolari, i quali, per l’elevata retribuzione e l’appetibilità di quella carica, erano docili pedine nelle mani del potere politico, per cui l’imparzialità e la serenità dei tribunali costituivano una merce rara. Il protagonista della commedia, Filocleone, è un vecchio giudice che dorme in tribunale per essere sempre pronto a condannare il primo imputato che gli capita a tiro, innocente o colpevole che sia, poiché ritiene che l’imputato sia sempre e comunque un delinquente. Come lo vede, prima ancora che il processo abbia inizio: “Adesso lo fottiamo!”, mormora ai colleghi. “Forza, amici giudici, vespe furiose, tendete il pungiglione acuto, che è la nostra arma, colpite, colpite con rabbia, al culo, agli occhi, alle dita, tutt’intorno!”. E se per caso l’imputato viene assolto esclama: “Sono rovinato! La mia carriera è finita! Che ne sarà di me?”.

Nella Grecia di Aristofane un grande ruolo nei processi l’avevano i “sicofanti”, spie, delatori, calunniatori di professione (oggi si chiamano “collaboratori di giustizia”), i quali avevano il compito di origliare fra la gente per sentire se qualcuno complottava contro la democrazia, e poi correvano dal giudice a riferire. Se uno - narra sempre Aristofane - al mercato del pesce, invece delle sardine comprava degli scorfani, o una cipolla da mettere insieme alle alici, il fatto veniva interpretato dal giudice come un attentato alla democrazia.

Fra i delatori c’erano anche le prostitute, quando i clienti pretendevano di cavalcarle, un atto che poteva essere interpretato come una vocazione alla tirannide. E c’erano anche le minorenni date in affidamento, che facevano dire al vecchio giudice Filocleone: “Se nel testamento un padre affida la figlia a qualcuno noi mandiamo a farsi fottere il testamento e il sigillo messovi sopra, e la ragazza la diamo a chi ci convince di più. E di tutto ciò non dobbiamo rendere conto a nessuno, perché nessun potere sta alla pari del nostro”.

Anche questo atteggiamento, il delirio di onnipotenza, come la smania di protagonismo, è indice di una mente guasta, esaltata e in definitiva corrotta. La giustizia è raffigurata come una donna che regge una bilancia con i due piatti (accusa e difesa) perfettamente allineati, ad indicare un equilibrio che in effetti non c’è, o che manca spesso. Oggi si sono affinati i metodi, perfezionati i mezzi, ci sono i telefoni e i cellulari, si piazzano microspie nelle camere da letto e nei gabinetti delle case private. Così, prima ancora che le voci siano vagliate e depurate di tutto ciò che non ha alcuna rilevanza penale, inizia il passa parola: “In principio era la parola”. Il Leviatano dell'informazione - mostro orrendo, come la Fama virgiliana, “dai mille occhi, dalle mille bocche e dalle mille orecchie, tenace spacciatrice di menzogne e verità” - s’impadronisce di quel prodotto abusivo, lo manipola, lo mastica con i suoi denti avvelenati e con un gusto sadico pieno di rabbia e di soddisfazione, e poi lo sputa riempiendo pagine su pagine: mille, diecimila, centoventimila! Che non sono niente di fronte ai milioni di pagine che si potrebbero riempire intercettando tutti i pensieri che passano per la mente dei cittadini. E se questi gridassero ai quattro venti ciò che pensano dei magistrati? O se li intercettassero? A tale proposito ecco la trascrizione fedele di un colloquio molto significativo (riportato dalla stampa) fra un magistrato e una imputata:

“Lei deve tenere presente una cosa, che se io sono venuto qui a farle delle domande, può essere pure che lei sia stata seguita, no? Che le siano state fatte delle fotografie, che siano stati seguiti i suoi movimenti, magari per mesi, che siano state ascoltate le sue telefonate. Quindi io perciò la esorto a dire la verità. Lei è una ragazza giovane, quindi è giusto che io, che faccio il magistrato, le ricordi che deve dire la verità, perché altrimenti commette un reato e quindi, diciamo, poi avrà ovviamente appunto dei problemi. Allora a me quello che interessa sapere è questo, non è che m'interessa sapere, questi sono atti segreti, perché sono atti di indagine. Non è che io mi voglio fare i fatti suoi, a me interessa però, se lei ha scambiato le sue, diciamo, prestazioni sessuali con l'interessamento di S.S., perché, insomma, tra l'altro, voglio dire, questo è un atto segreto, segretato, non è che questo è un atto che va sui rotocalchi. Quindi lei è qua come in un sacrario, in cui le vengono poste delle domande, alle quali deve dare una risposta in termini di verità, cara signorina. Lei non può, voglio dire, dire: "No", insomma, inventare delle storie. Mi ha capito? Allora lei, voglio dire, è mai stata con S.S. o no? Questa sensibilità, diciamo, questo rapporto carino, nell'ambito, in seno a questo rapporto carino, diciamo, che si è creato, ci sono stati o no con il signor S.S., diciamo, dei momenti di intimità? E comunque, voglio dire, ci è andata a letto con S.S.?... Dica, risponda, signorina, ha fatto l'amore alla Farnesina? E quando l'ha fatto?”.

Chi ci salverà da questo “Grande Fratello” che ci spia giorno e notte e che non si accontenta di quel che sente ma si alimenta e si accresce sempre più, di sospetti, di voci dubbie o false, di supposizioni? È come un gioco a ping pong: da una parte ci sono i giornali che lanciano l’accusa, magari per provocare l’intervento dei magistrati, o perché i magistrati, sotto banco, gli hanno passato le informazioni, dall’altra c’è una giustizia che aspetta, a intervenire o a decidere, perché prima i giornali devono darle un appiglio, devono fare il lavoro sporco che i magistrati, puliti, non possono fare, ma di cui sono ben contenti quando si tratta di eliminare qualcuno che gli sta particolarmente antipatico.

Ma che giustizia è una giustizia che dipende dalle voci, dalle intercettazioni, da pentiti e sicofanti, i quali nel momento in cui le danno una mano offendono e mortificano la giustizia stessa? Dov’è la sua autonomia? Se un mafioso collabora con la giustizia, la giustizia a sua volta, mostrando di dargli credito e importanza, fa un favore alla mafia, la quale ne approfitta e se ne serve, assumendo un ruolo che spesso nel processo è addirittura di primaria importanza. È avvilente una giustizia che viene data in subappalto ad altri, che manda all’avancarica i pentiti, le spie, le escort, i trans e lascia che i giornali le spianino la strada. Anche lei intorbidisce le acque quando tira in ballo fatti e personaggi che con quella specifica imputazione non hanno nulla a che vedere. Se poi lo fa per interessi personali, per eliminare un avversario politico, per mettersi in mostra, per guadagnarsi uno spazio sui giornali o nei programmi televisivi è ancora più riprovevole.

“Una riforma della giustizia non può partire da uno spirito vendicativo”. Giusto. Ma nemmeno si devono vedere magistrati che fanno i processi nelle piazze e negli studi televisivi. Questa sì è un’usurpazione, un’offesa alla giustizia, un’umiliazione dei magistrati stessi, i quali scendono dai loro seggi istituzionali per misurarsi come dei pugili sul ring fra due opposte tifoserie, assoggettandosi, prostituendosi agli umori della piazza, alla propria vanità, al proprio spirito di rivalsa, agli interessi corporativi, di carriera e così via. Sono i magistrati stessi che abdicano alla loro nobile funzione, insinuando anche loro sospetti e timori, nonché il dubbio se la giustizia sia veramente autonoma, come loro vanno gridando.

“Il potere di giudicare - diceva Leonardo Sciascia - dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, nell’accedere al giudicare come a una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio. Non da questo intendimento i più sono chiamati a scegliere la professione di giudicare. Una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come un dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto a esteriorizzarlo. Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo, la società, che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli”.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:50