l nome di David Bellamy non di-
ce molto a un italiano. Ma in
Gran Bretagna è più che noto al
grande pubblico. Bellamy ha dedi-
cato la sua vita all’ambientalismo
e alla passione per la botanica. Co-
me i veri ambientalisti duri e puri,
ha un passato da attivista, che ne-
gli anni ‘80 gli valse anche un ar-
resto. Erano gli stessi anni in cui
divenne un popolare conduttore
televisivo per la Bbc.
Poi, all’inizio del nuovo millen-
nio, l’inizio del declino. Da un lato
il fiasco del suo impegno politico,
dall’altro un cambio di rotta ri-
guardo all’ambientalismo che non
gli è stato mai perdonato. È ancora
un fervente sostenitore dell’educa-
zione al rispetto dell’ambiente e
crede anche nell’omeopatia. Sareb-
be il ritratto del perfetto ambien-
talista, se non fosse per il fatto che
Bellamy, tra le altre cose, è anche
uno che non ha avuto timore di
cambiare idea. E il tema sul quale
ha cambiato opinione è uno di
quelli su cui non si scherza: il ri-
scaldamento globale.
Per via della sua visione non po-
liticamente corretta sull’argomento,
Bellamy venne allontanato dalla
Royal Society of Wildlife Trusts
nonché dalla Bbc.
Jane Fryer del Daily Mail è an-
data a far visita a casa dell’ex pre-
sentatore ambientalista, ormai ot-
tantaseienne, per farsi raccontare
I
com’è andata esattamente la sua
storia. Bisogna tornare indietro al
2004, l’anno in cui Bellamy palesò
il suo cambiamento di opinione ri-
spetto al riscaldamento globale, so-
stenendo pubblicamente che la teo-
ria che punta il dito contro l’attività
dell’uomo quale causa primaria del
global warming, è semplicemente
una fesseria. “Poppycock”, così la
definì. In breve contro di lui si sca-
tenarono le ire della comunità
scientifica. La Wildlife Trust lo sca-
ricò senza neanche parlargli di per-
sona. «L’ho letto sui giornali» - rac-
conta Bellamy. E aggiunge: «Riesci
a crederci? Ora non vogliono farsi
neanche vedere in giro con me».
Ma a scaricarlo non fu solo la
comunità scientifica. Anche la Bbc
non fu tenera con lui. «Da quel mo-
mento – ricorda – non ero più il
benvenuto alla BBC. Mi tagliarono
fuori, perché non credo nel riscal-
damento globale».
Poi arrivò la ciliegina sulla torta:
una lettera che lo insultava alla stre-
gua di un pedofilo, perché eviden-
temente non credere nel riscalda-
mento globale rende un uomo in
qualche modo colpevole della mor-
te delle generazioni future, quindi
dei bambini.
Bellamy ormai è un uomo an-
ziano, ma sembra avere le idee mol-
to chiare sulla libertà di opinione
nello showbiz. «Quando ero alla
Bbc – racconta – potevo fare quello
che volevo. A quei tempi potevi dire
quello che ti pareva. Adesso non
puoi». Sono i tempi moderni, nei
quali l’essere politicamente corretti
vale più della libertà di esprimere
la propria opinione, per quanto non
condivisa dalla maggioranza.
Nonostante la lunga lontananza
dai riflettori e le vicende spiacevoli
che l’hanno visto protagonista, Da-
vid Bellamy si ritiene oggi un uomo
fortunato. Gli sono rimasti sua mo-
glie, i suoi fiori, l’amore per la sua
terra. E in fondo, scherza - «la BBC
fa ancora programmi dannatamen-
te buoni, o no?».
IRENE SELBMANN
II
ESTERI
II
Israele è in cerca di un leader.Ma non lo trova
di
NICOLA SEU
e elezioni che si sono tenute per
la 19esima Knesset sono state
percepite le più scontate, e noiose,
della storia d’Israele, con una cam-
pagna elettorale sostanzialmente
fiacca. La sorpresa è invece arrivata
con un buon risultato di “Yesh
Atid” (C’è futuro) di Yair Lapid, che
è il vincitore mediatico della conte-
sa. Mentre toccherà a Netanyahu,
come previsto, formare l’esecutivo,
e l’unico dato incerto riguarda le
percentuali e la composizione del
governo che sarà chiamato a com-
porre dopo lo spoglio delle ultime
schede. È lecito pensare che sua po-
litica non cambierà, che continuerà
a ristagnare com’è accaduto duran-
te le sue due esperienze governative,
nelle quali si è distinto per la sua
inoperosità e inerzia emblematica-
mente rappresentata dalla gestione
della crisi a Gaza e dalla mancanza
di una volontà chiara e precisa sulla
strategia da adottare. Inoltre, per
rincarare la dose, durante la sua
presidenza Israele si è alienata parte
del sostegno internazionale, soprat-
tutto europeo, ha visto sia Fatah sia
Hamas rafforzarsi agli occhi del-
l’opinione pubblica mondiale e in
un’ultima analisi uno stallo sia sui
negoziati con i palestinesi, sia sulla
questione iraniana. Questo grande
immobilismo non è altro che lo
specchio di un paese politicamente
in crisi, e sempre più spaccato. Nella
breve ma tormentata storia dello
Stato ebraico appare, anche agli oc-
chi di un osservatore non troppo
L
attento, una vitalità ed effervescenza
politica appassionante, con nume-
rosi e validi uomini e donne prepa-
rati a sostituirne altri a corto d’ini-
ziativa. Esempi molto indicativi
furono Begin nella seconda metà
degli anni Settanta, nei primi No-
vanta Rabin e nei primi Duemila
Sharon, tre abili statisti pronti a co-
gliere i fallimenti dei propri avver-
sarsi per proporre soluzioni alter-
native e una diversa gestione del
potere e del conflitto. È indubbio
che non sia sufficiente un leader ca-
rismatico per dare una svolta e per-
seguire obiettivi ambizioni, ma in
tutti gli importanti episodi della sto-
ria d’Israele, un personaggio di
grande prestigio li ha incarnati, e
rappresentati. Ogni svolta storica è
stata percepita attraverso autorevoli
volti, che, nel bene e nel male, sono
passati alla storia per i loro atti. Og-
gi, nel 2013 viene da chiedersi dove
siano i leader d’Israele. La risposta
è molto semplice: non ci sono.
Israele vive una decadenza della
propria leadership senza precedenti.
L’ictus che ha strappato Ariel Sha-
ron dalla scena politica nel 2006,
ha privato il suo paese dell’ultimo
leader degno di poter essere consi-
derato tale e da allora nessuno è
riuscito a incarnare le caratteristiche
necessarie per apparire agli occhi
dell’elettorato forte e affidabile. Due
qualità, queste ultime, inscindibili
in tutti gli uomini che seppero fare
scelte che hanno inciso la storia del-
lo Stato ebraico. L’opposizione at-
tuale fluttua fra semi-personaggi e
lotte interne, senza alcuno in grado
di unire le varie anime del Paese o
capace di sviluppare programmi
credibili e di mostrarsi all’altezza di
fronte all’elettorato. Tzipi Livni, che
qualche anno fa sembrava il primo
candidato della sinistra e che qual-
cuno osò paragonare a Golda Meir,
annaspa nella confusione della si-
nistra e in questi anni di governo
del Likud non ha saputo mantenersi
adeguatamente alla guida del par-
tito ereditato da Sharon, mostrando
poca lungimiranza politica e inca-
pacità di fare opposizione, e tutti
gli altri si macchiano del peccato
dell’estremismo o dell’irrazionalità,
o di entrambi. Un simile scenario,
scorante in qualsiasi realtà politica,
in Israele assume una forma inquie-
tante poiché di certo lo Stato ebrai-
co non può permettersi di questi
tempi una mancanza simile. La sua
posizione internazionale ha subito
pesantissime ricadute con il ricono-
scimento a valanga della Palestina
all’Onu, e con il deterioramento dei
rapporti con alleati storici come la
Turchia. Le preoccupanti incognite
dell’Africa settentrionale e della Si-
ria e L’Iran che persegue nella sua
ferma volontà di ruolo guida nella
lotta contro “L’Entità Sionista” e
verosimilmente lavora per ottenere
armi nucleari sono minacce terri-
bilmente reali, e vicine. All’interno
dei propri confini i problemi non
sono certo trascurabili, e mentre il
tasso demografico, lentamente ma
ininterrottamente, rischia di scardi-
nare i fragili equilibri su cui si regge
la complessità della società israelia-
na, i gruppi estremisti e religiosi si
moltiplicano e promettono dura
battaglia alla moderazione e laicità.
Di fronte a tutto ciò, Israele si trova
a votare un personaggio come Ne-
tanyahu, dopo averlo già sperimen-
tato per due mandati in cui, onore
alla coerenza, ha fondamentalmente
deluso le aspettative interne e inter-
nazionali, seppur con alcuni risultati
di importante impatto mediatico
come la liberazione di Shalit. Il bi-
lancio non è certo sufficiente per chi
si deve gestire una delle aree mag-
giormente intricate del pianeta.
Leggendo queste righe, proba-
bilmente, un elettore o un analista
israeliani aprirebbero le braccia in
segno di rassegnazione e direbbero
con un sospiro: ”Ma di meglio
non c’è”. Disgraziatamente avreb-
bero ragione.
Bellamy, l’ecologista scettico
censurato dallaTv britannica
ReferendumUe
Cameron lo vuole
K
David BELLAMY
pplausi dai conservatori, per-
plessità dei loro alleati liberal-
democratici, preoccupazione del-
l’opposizione laburista: il premier
David Cameron, dopo una lunga
attesa, ha finalmente annunciato il
prossimo referendum sull’Unione
Europea. saranno i sudditi britan-
nici a decidere se restare con Bru-
xelles o andarsene. A ben vedere,
però, non si tratta di una decisione
da prendere sui due piedi. L’ambi-
guità dell’annuncio di Cameron è
nei tempi: si voterà all’inizio della
prossima legislatura, entro il 2017.
E da qui a là di cose ne cambieran-
no tantissime. Il leader conservatore
ha dichiarato che fare adesso una
consultazione popolare sarebbe
inutile, perché a Bruxelles cambie-
ranno molte carte in tavola. La crisi
dei debiti sovrani ha infatti inne-
scato una spirale di riforme: più
l’eurozona è a rischio, più a Bru-
xelles aumenta la tentazione di cen-
tralizzare le decisioni in un unico
super-Stato continentale. Prova ne
è anche l’approvazione, da parte di
11 Paesi (fra cui l’Italia) della nuova
“Tobin Tax”, la tassa sulle transi-
zioni finanziarie. È una prima, vera
e propria, tassa europea. e segue al-
tre misure, fra cui il “Patto di bi-
lancio europeo” del 2012, volte ad
armonizzare (e controllare dal cen-
tro) la politica finanziaria degli Stati
membri. Cameron, sinora, si è te-
nuto ben al di fuori delle nuove ri-
A
forme europee. Ha respinto anche
la Tobin Tax, che va direttamente
contro gli interessi nazionali bri-
tannici: Londra è tuttora la princi-
pale piazza finanziaria del Vecchio
Continente. La tendenza del gover-
no conservatore britannico è quella
di rinegoziare l’adesione all’Ue. An-
che in base a quanto ha dichiarato
ieri il premier britannico, prima si
cercheranno di ottenere nuove con-
dizioni di adesione. E solo in base
al risultato dei futuri negoziati, i
sudditi britannici saranno in grado
di decidere se continuare a mante-
nere un’adesione “leggera” al-
l’Unione o andarsene del tutto.
Ma proprio sui negoziati, Ca-
meron incontrerà l’opposizione di
Francia e Germania. Che, già ieri,
commentando l’annuncio del re-
ferendum, hanno contestato la ten-
denza britannica ad accettare solo
“un’Europa à la carte”. L’atmo-
sfera non è delle più serene, insom-
ma. E, se gli inglesi saranno messi
di fronte alla scelta di rinunciare
alla sovranità (come inizia a chie-
dere Bruxelles) o separarsi del tut-
to, sceglieranno la separazione.
Non ci si deve illudere dei sondag-
gi fatti nel 2012, che dimostrano
ancora un alto tasso di europei-
smo. Le nuove condizioni potreb-
bero essere molto peggiori. E i bri-
tannici non hanno mai sopportato
occupazioni straniere.
STEFANO MAGNI
L’OPINIONE delle Libertà
GIOVEDÌ 24 GENNAIO 2013
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